ALDO SOFIA

Inaugurazione I AM HERE NOW
10 maggio 2014
Ore 14.30

Audio:

Mi è stato chiesto di parlarvi brevemente di un tema bellissimo e insidiosissimo: il viaggio.
Evidentemente nel tentativo di cogliere uno degli aspetti essenziali di chi ha vissuto le esperienze che vengono raccontate in questa iniziativa che personalmente trovo molto opportuna soprattutto in momenti come questi. Non stiamo vivendo momenti felici, sotto certi aspetti dell’apertura delle menti prima ancora dei cuori. Non voglio essere buonista oggi, le cose vanno dette per come sono. Quindi in questo momento questo progetto, che certo parte da lontano, secondo me ha un plus valore.

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Il viaggio è per metafora stessa la vita. Quante volte abbiamo detto che la vita è un lungo viaggio. Per quello che trovo che il tema che mi ha assegnato Alan sia molto insidioso.
Sant’Agostino diceva che sì, la meta è importante, ma il viaggio, le tappe del viaggio sono estremamente più importanti. Cosa voleva dire? Che una traiettoia diretta senza interruzioni, senza bruschi stop, senza conoscenza né interlocutori, in fondo è un viaggio abbastanza povero, poco interessante, poco formativo. Ognuno di noiè il viaggio che è stato, che è, che sarà. Perché senza questo modo di farsi sorprendere dalle cose, di guardarle, di guardare gli altri, evidentemente tutto diventa più sterile.
E oggi devo dirvi francamente una cosa, mi chiedo, al di là degli aspetti professionali, se le cose sono state riferite in modo corretto o no, se io da questi viaggi ho colto la parte migliore. Quella che mi avrebbe dovuto permettere un viaggio anche interiore. Non sono così sicuro di aver colto questo aspetto che la professione mi ha regalato.
Quante volte ho saputo guardare gli altri, quante volte ho saputo ascoltarli, e non sono quante volte ho saputo riferire di quello che mi dicevano.

Vedete, il nostro lavoro, anche quando fatto con passione e preparazione (e non è sempre così), oggi soprattutto ha un doppio vincolo, da una parte c’è l’esigenza di capire, subito, velocissimamente, cosi come sono veloci i new media, i social media in particolare. Quindi da una parte questa necessità di capire, dall’alta la necessità di trasmettere più velocemente possibile, sono due tagliole micidiali, in cui spesso noi commettiamo grandi errori. Ed errori sono stati anche commessi, bisogna dirlo, durante le guerre balcaniche. Dopo il medioriente è stata la parte professionale al di fuori del Ticino e la Svizzera che ho più seguito e mi ha più colpito. Ancora l’altro ieri ho incontrato una signora – non voglio dire l’appartenenza, da quale comunità (che importa…) – che mi ha chiesto, un po’ polemicamente, “ha finalmente capito qualcosa?”. Perché questa tragedia è rimasta dentro… so che qui c’è uno sforzo ulteriore affinche tutto questo venga rimarginato. Però noi ci portiamo dietro, ci portiamo dentro, se siamo un pelo coscienziosi. Quando Alan nella presentazione diceva, o chi per esso, “improvvisamente gli stessi autori di questi racconti che oggi possiamo ascoltare hanno scoperto con sorpresa che può esserci la guerra in casa, la porta di casa..” immaginate cosa significava andare in quelle regioni e cercare di capire e di raccontare immediatamente cosa succedeva.
Una cosa l’ho capita di sicuro dall’ex Jugoslavia: che c’è stata una enorme manipolazione. Delle popolazioni, vittime prima di quella tragedia, dell’opinione pubblica al di fuori di quei paesi attraverso i nostri messaggi, e anche a livello politico. E la prima manipolazione, è stata quella della costruzione della paura. C’è un libro che ho riletto prima di incontrarvi, Paolo Rumiz “Maschere per un massacro”. Lui fa anche una classifica delle responsabilità, perché io non sono nemmeno dell’avviso che tutti sono responsabili in modo paritario, c’è chi ha più responsabilità. Ma se vogliamo fare un discorso generale, tutto il libro è attraversato da questa ossessione, e cioè dal fatto di capire quanto sia stato sufficente in un paese come la Ex Jugoslavia, certo con le sue fragilità – perché era un mosaico -, per far saltare tutto un sistema e soprattutto alimentare un odio che, posso dirlo, io non ho trovato nemmeno in questa misura, in questo accanimento, in questa violenza, nel fatto di distruggere interi villaggi, nel fatto della pulizia etnica, a volte non ho trovato nemmeno in altre regioni del mondo.
In particolare in medioriente.
Vuol dire quindi che lì c’è più odio?
No, è molto più semplice, lì sono riusciti meglio che altrove, per delle condizioni storiche date, a costruire e far funzionare quasi perfettamente la macchina dell’odio.
E questo va sottolineato. Perché altrimenti si perde di vista quello che può di nuovo capitare. E quello che gli ex ragazzi, oggi adulti, che sono venuti da noi, possono insegnare a noi. Perché noi stiamo tutti a guardarli come sono arrivati, cosa hanno detto, come sono cresciuti, ma a noi… cosa hanno detto?
Io credo che questa sia una delle domande principali che trova qualche risposta nei lavori che sentirete.
Quando sono entrato, mi ha attratto il fatto che ci fosse la presentazione di uno scrittore che viene citato con una bellissima affermazione, cioè che i ponti devono servire a unire [Ivo Andrić].
Voi dovete sapere che quell’autore è stato usato nella maniera più esemplare, per i termini di cui vi parlavo. I suoi concittadini, intellettuali, di una certa accademia, si sono serviti, dei suoi scritti, per farne un panegirico nazionalista, di un popolo sempre assediato, un popolo sempre aggredito, sempre in lutto. È stata una delle più violente manipolazioni della storia di quel conflitto. Spesso, gli autori di queste manipolazioni erano degli intellettuali, per cui per noi era estremamente difficile capire, al primo impatto, vedere famiglie dove c’erano coppie miste e sapere che al di fuori della loro porta c’erano dei massacri. La paura è servita ai manipolatori.
Se noi dimentichiamo questo, continueremo a guardare agli ex ragazzi della Jugoslavia, senza renderci conto, che invece dobbiamo guardarli con altri occhi, noi, le nostre popolazioni, come quelli che portavano la violenza, i portatori di una cultura violenta. È un bacino di una grande cultura e grande storia. È che ce li hanno proposti sotto questa forma. Naturalmente i problemi ci sono, non bisogna negare nemmeno quelli. Ma per andare alla radice di quel problema e capire l’importanza di questi lavori e quindi quello che sta avvenendo oggi nel loro tentativo di integrazione, non bisogna dimenticare che la grande manipolazione, delle teste, degli umori, delle paure, ha creato una delle più grandi tragedie degli ultimi anni, anzi, personalmente, insieme a quella del Rwanda, la più grande tragedia dopo la II Guerra mondiale.
E quindi quando ho sentito, letto, dell’importanza della memoria, proprio perché la memoria ci aiuta a costruire, non solo a non dimenticare, anche se là, nei luoghi della tragedia, la memoria è stata utilizzata per scopi propagandistici. Ci sono innumerevoli esempi: primo viaggio a Zagabria, vigilia della guerra della Krajina. Arrivo nella piazza principale di Zagarbia: vuota. La gente ha paura che la guerra cominci, ha paura di quello che avverrà, ha paura per i propri cari, ha paura per i cari che ha in altre repubbliche in quella che ormai è l’ex Jugoslavia. Quindi, deserto. Arriva una colonna di auto ufficiali, scende il presidente, si guarda attorno, si siede un attimino, si prende un caffé, noi ci precipitiamo, eravamo l’unica telecamera presente, non era previsto, ci precipitiamo, ci cacciano, e la mattina dopo sentiamo grazie alla traduzione del nostro collaboratore alla radio che Tudjman aveva attraversato la città tra cori diciamo inneggianti la sua politica.
Voglio dire, questo è un fatto già clamoroso. Ma questo è niente in confronto di quello che riuscirono a fare in termini di manipolazione.
Un’altra volta durante la guerra da un altro fronte, hanno bombardato a tre ore da qua una centrale elettrica, era un delitto contro l’umanità, era inverno, e ho detto al mio cameraman, tale Kokotović, della Vojvodina, quindi di origine ungherese, “andiamo a vedere cosa è successo” – “no dai Aldo, perdiamo due gioni, i posti di blocco” – “no questa volta voglio andare a vedere questo infame attacco alla centrale elettrica”. Ci siamo arrivati e non c’era un mattone fuori posto.
Questi sono i mega esempi, potrei portarne molti altri.
Conservare la memoria è anche un modo per avere a disposizione un carburante, se la memoria non è utlizzata per alimentare di nuovo l’odio, se si è ripulita delle scorie del risentimento e della vendetta, diventa un fatto estremamente dinamico e può aiutare moltissimo anche chi oggi, vive il suo momento di intergazione ma non vuol perdere, e io spero che non le perda, le indicazioni rispetto alle sue radici.

Allora per concludere, vi voglio parlare di due viaggi, che si intrecciano bene con questa riflessione. Sono tornato questa notta da Praga, penso che molti di voi la conoscono, bellissima città. Ci siamo andati io e mia moglie. A Praga si riunivano degli ex bambini ebrei che erano stati salvati durante la seconda Guerra mondiale, grazie a una operazione “rescue mission” – di salvataggio – con dei treni che li avevano evacuati verso Londra. 667 bambini venivano salvati in questo modo, grazie all’impegno del tutto disinteressato di un giovane allora, che si chiama Nicky Winton, che oggi ha 105 anni (un paio di giorni alla settimana la badante va a vedere come sta – e sta bene), del tutto disinteressato stava andando a sciare a St. Moritz, e un suo amico deputato socialista lo chiamò e gli disse “invece di andare a divertirti da quelle parti, fammi un favore e vai a Praga dove ci sono migliaia di bambini fuggiti dai Sudeti, Sudeti incorporati da Hitler, dobbiamo aiutarli”. E a Praga, fra le persone che operavano sul terreno che rischiavano molto di più c’era anche uno svizzero – Bill Barazzetti – oggi sia Winton che Barazzetti sono allo Yad Vashem.
Mio suocero è uno di quei bambini salvati. Quindi io vivo con una persona che vive, grazie a un salvataggio di quel genere. E rincontrare queste persone, tutte ultra ottantenni, e ciascuno nel suo modo, è un modo perenne, per quanto mi concerne, di capire al tempo stesso, come la memoria, l’impegno e l’integrazione possono andare avanti e procedere.
Io ho incontrato mia moglie, un giorno a Londra, e mia moglie ha incontrato qualcuno che a sua volta ha fatto dei viaggi.

Dalla Sicilia, là non c’era il comunismo, c’era una cosa chiamata Miseria – che non era molto meglio – ha fatto il suo viaggio. Io ho fatto il mio viaggio da Sud, lei da Nord, ci siamo incontrati e cosa c’è di più straordinario? Cosa c’è di più straordinario di questi incontri che continuano ad animare le nostre corde, le nostre speranze.

Ma che brutta cosa la chiusura mentale, ma che brutta cosa la paura dell’altro, che brutta cosa continuare a dire “i ma portan via quaicos, al’è me!”. Io trovo tutto questo assolutamente triste, certo… e questo è quello che chiedo, per finire, a chi ha tanto lavorato per integrarsi, per “essere qui oggi” come dice il titolo giusto di questa rassegna, allora dico che bisogna capire chi si ha di fronte. E loro che sono arrivati da quelle tragedie devono capire anche certe ansie che esistono, inutile negarlo, vanno aiutati a capire. Credo che l’unico modo per evitare – chissà se ci riusciremo mai – di continuare su questa strada, sia quella di aiutarli a capire.

Mio papà quando siamo arrivati, mio papà è stato un immigrato di successo, quando eravamo bambini vide mio fratello non alzarsi sul tram – allora a Lugano c’era ancora il tram – e non lasciare il posto a una signora. Quando arrivô a casa, ci disse solo questo – “se io verrò ancora una volta a sapere una cosa del genere, per voi, per tutti voi saranno guai” – non aveva proprio uno spirito pedagocigo, diciamo, ma si faceva capire bene.
Quindi l’invito a questi ragazzi è di capirci e di aiutarci a capire.
E con queste parole che voglio chiudere e ringraziare ancora una volta chi ha organizzato e voluto fortemente un momento così importante.
Grazie a tutti voi.